“Non solo” infermieri nei posti di comando
Gentile Direttore,
ho letto con molta attenzione e molto piacere il contributo apparso sulla sua testata lo scorso 29 aprile riguardante la necessità di avere un maggior numero di infermieri nei posti di comando, a firma di alcuni esimi esponenti della professione infermieristica. Trovo che si tratti di una visione assolutamente condivisibile per chi, come me e molti altri, vive dall’interno la realtà di tutti i giorni del nostro SSN, specie in una situazione emergenziale come quella che abbiamo vissuto e che stiamo ancora vivendo.
Mi lasci però la facoltà di fare alcune osservazioni al riguardo, in particolare per tutta quella parte di realtà sanitaria che non ricade nei due ambiti trattati nel suddetto articolo, ovvero per tutti i professionisti sanitari che non siano medici o infermieri.
In primis mi preme sottolineare come le parole riportate e pronunciate dall’infermiera di Genova al direttore della sua ASL, citate nell’articolo, non possano e non debbano in alcun modo essere interpretate come unicamente riferite alla professione infermieristica perché ciò le priverebbe della loro forza e le renderebbe in modo controproducente autoreferenziali: “La cura dei pazienti passa attraverso la cura che si ha del personale, nella preoccupazione che tutto sia garantito affinché infermiere, infermieri e medici vengano preservati come un bene prezioso”. Tale affermazione è quanto mai vera, ma unicamente se riferita a qualsiasi professionista sanitario operante negli ospedali, negli studi privati o sul territorio.
L’accento che viene posto sul dopo è quantomai doveroso, in particolare per evitare che quanto successo porti a non cambiare ciò che si è dimostrato inadatto al sistema salute e ai bisogni della popolazione, sia in tempi di emergenza ma, soprattutto, in tempi di “normalità”. Ma tale cambiamento non può in alcun modo essere focalizzato unicamente sulla figura dell’infermiere, per quanto di fondamentale e centrale importanza.
Esistono infatti una miriade di servizi alla persona che non possono e non devono essere lasciati alla gestione di chi, come gli infermieri, non ne ha le competenze e le conoscenze dal punto di vista organizzativo/gestionale oltre che prettamente pratico.
Credo che lo “slogan” più corretto non sia “più infermieri nei posti di comando” ma, in modo omnicomprensivo, “più professionisti sanitari nei posti di comando”.
Se è vero che esiste una grave carenza di una rete di assistenza diversificata e non concentrata solo sull’ospedale, è altrettanto vero che questa emergenza ci ha dimostrato come questa rete debba essere il più possibile completa e rispondente ai bisogni. Perché non parlare di quanto la telemedicina avrebbe permesso di affrontare in modo diversificato l’emergenza, soprattutto dal punto di vista radiologico? Perché non portare alla luce le mancanze legate a un insufficiente organizzazione regionale del sistema riabilitativo territoriale che, ora più che mai, servirebbe a garantire il ritorno alla normalità di tutti quei cittadini vittime del Coronavirus e curati per diverse settimane nelle varie Terapie Intensive d’Italia? Perché non sottolineare quanto si renda palese la necessità di interventi di riabilitazione psichiatrica su malati che, a detta di molti esperti, potrebbero soffrire di “stress post-traumatico”?
E di esempi come questi ne potrei fare molti altri. Ma la domanda più importante che a questo punto sorge e alla quale vorrei provare a dare una risposta è la seguente: è corretto che tali servizi vengano gestiti e organizzati dagli infermieri nei posti di comando?. Fino ad oggi la risposta sarebbe stata semplicemente positiva, ma non credo che ciò che è successo possa permettere che continui ad essere così. Forse non è un caso se il mio vecchio nonno milanese diceva sempre un detto popolare di grande valore: “Ofelè fa el to mestè!”, ovvero ognuno faccia ciò che è capace di fare, aggiungerei con competenze e formazione specifica.
I professionisti sanitari devono rivestire i ruoli di comando che la Legge gli riconosce e collaborare per arrivare a organizzare un Sistema Sanitario Regionale e/o Nazionale che risponda alle necessità di una popolazione con caratteristiche demografiche precise. Non credo che un infermiere riuscirebbe mai a combattere con la giusta forza e competenza una battaglia, ad esempio, sulla necessità di dare ai Tecnici Sanitari di Radiologia Medica la possibilità, sulla base di procedure e autorizzazioni condivise con Aziende Sanitarie e/o ATS, di eseguire procedure radiologiche standard sul territorio con conseguente diminuzione dei tassi di ospedalizzazione e con un minor rischio di trasporto di pazienti fragili.
Allo stesso modo non è verosimile che un infermiere riesca a comprendere le peculiarità di un Area di Laboratorio o di Diagnostica per Immagini in tempi di pandemia e di necessità di rapide decisioni sulla differenziazione dei percorsi e sulle migliori strategie per diminuire il rischio di contagio per pazienti e per operatori, in contesti molto diversi da quelli di una qualsiasi degenza.
Condivido in pieno l’affermazione secondo cui la storia di questi mesi ha fatto vedere quanto debbano essere considerate regressive le diatribe interprofessionali, ma solo ed unicamente se verrà garantito che ogni “Ofelè” possa fare il proprio “mestè” sia a livello di singole Unità Operative sia a livello di Dirigenza Ospedaliera o Sanitaria Locale con la creazione di adeguati posti dirigenziali per le Aree non Infermieristiche riconosciute dalla Legge.
Cristian Bonelli
Tecnico Sanitario di Radiologia Medica