Ecco come intervenire per arrestare l’ondata Covid in Calabria
Gentile direttore,
il SARS Cov 2 bussa sempre più forte alle porte e la Calabria si sveglia dal sonno. Non so dire se sia o meno tardi ma, censite le capacità recettive delle nostre strutture sanitarie che si apprestano a collassare, temo proprio di sì.
Inutile recriminare su quanto non è stato fatto per tempo. Alla fine ci penseranno eventualmente le Procure delle Repubbliche ad individuare responsabilità penali.
Inutile anche ribadire cosa avremmo dovuto fare: lasciare agli Hub l’assistenza e le cure delle malattie per così dire ordinarie ed utilizzare gli Spoke, gli ospedali generali e gli ospedali di zona disagiata adeguando ciascuno di essi in funzione della potenziale richiesta attesa.
Sarebbe stata una grande opportunità, grazie alla partecipazione economico-finanziaria da parte del Governo con le risorse stanziate attraverso il DL 18 s.m.i., ed il resto finanziato dalla regione. La sanità calabrese avrebbe potuto colmare, seppur parzialmente, il gap che la separa da molte altre. Avrebbe potuto, con maggior efficacia, far fronte alla recrudescenza pandemica ed avrebbe, cosa non di poco conto, alla fine della stessa, potuto ritrovarsi finalmente con maggiori risorse.
Ma niente di tutto questo è stato fatto.
Oggi, i tre centri Hub sono prossimi al collasso. Le immagini delle ambulanze in attesa davanti al pronto soccorso dell’Annunziata provocano non poca inquietudine. Mentre scrivo, la Terapia Intensiva Covid del Grande Ospedale Metropolitano di Reggio Calabria ha occupato l’ultimo posto disponibile mentre incontro alla saturazione vanno anche i letti per i ricoveri ordinari.
La prima ondata, quella primaverile, con il suo basso impatto sulle strutture sanitarie, è ormai solo un ricordo.
Inutile, dicevamo, rincorrere ciò che si sarebbe dovuto fare.
Come tentare di arginare lo tsunami? Immaginare di attendere l’ampliamento o la costruzione ex novo delle terapie intensive e sub-intensive del Commissario Arcuri, è impensabile (ma lo era, francamente, anche il 9 ottobre, alla data cioè della pubblicazione della sua ordinanza).
Il virus infatti, birichino ed impaziente, era facilmente intuibile non si sarebbe dilungato in convenevoli. D’altronde, lo stato di emergenza è in vigore dal 31 di gennaio, forse avremmo potuto pensarci un po’ prima…
Si, me ne rendo conto: più sostengo l’inutilità di rivangare il passato, e più questo, probabilmente un po’ per la delusione della gestione della pandemia, riaffiora inesorabilmente.
Attesa dunque l’impossibilità di incrementare, se non con grande spirito di adattamento, i posti necessari per le alte intensità di cure, l’unica è giocare la partita in attacco, andando ad arginare l’offensiva sul nascere, sul territorio. Già il territorio, l’eterno assente. Mi piace immaginare che i tanti giovani colleghi in servizio presso le USCA, curino a domicilio i pazienti positivi paucisintomatici, precocemente intercettati dai medici di medicina generale.
E che dunque questi pazienti, che sono la maggioranza, possano avere un decorso controllato e la probabile guarigione, evitando di sovraccaricare i Pronti Soccorso ed i reparti. Alcuni dei medici delle USCA mi riportano invece di essere utilizzati esclusivamente per l’esecuzione dei tamponi. E raramente vengono interpellati per lo scopo per il quale sono stati chiamati e cioè il monitoraggio e le cure a domicilio di questi pazienti. Se ciò fosse vero, sarebbe l’ennesima conferma dell’incapacità organizzativa del management delle cure primarie. L’ennesima conferma dell’assenza del territorio.
Ma rappresenterebbe anche il primo e più importante step da attivare, – peraltro immediatamente realizzabile – atteso che il contact tracing, ora che i buoi son fuggiti dalla stalla, probabilmente assume minore importanza rispetto alla difesa delle strutture sanitarie effettuata direttamente al domicilio dei malati. Meno tamponi e più cure a domicilio, quindi, piuttosto che inseguire il virus ed abbandonare i pazienti. E non sarebbe francamente inopportuno se anche i medici di medicina generale dessero il loro contributo, visto lo stato di necessità.
Alternativa alla domiciliazione, è il ricovero, per questa tipologia di pazienti, in strutture alberghiere: è proprio così difficile requisirne a sufficienza?
Il secondo step è rappresentato dall’attivazione delle strutture intermedie, identificabili, nel SSR calabrese, con gli ospedali generali e con i presidi di zona disagiata. Qui sarebbe indicato il ricovero di quei pazienti che necessitano di bassa intensità di cure ma che non possono essere trattati a domicilio ed il cui ricovero nelle strutture di livello superiore comporterebbe una congestione delle stesse. E qui, però, sorge una prima tangibile difficoltà: la carenza di personale, in particolare infermieristico ed operatori socio sanitari. Di questa criticità dobbiamo ringraziare gli innumerevoli stop alle assunzioni che sono arrivati dalla struttura commissariale e che hanno annichilito, attraverso una gestione prevalentemente ragionieristica, alla desertificazione delle aziende.
Laddove ci si trovasse in carenza di personale, evenienza non del tutto improbabile visti gli avvisi pubblici che adesso cominciano a fioccare sugli albi pretori delle aziende, dato il grave stato di pericolo per la pubblica incolumità, sarebbe opportuno, se non addirittura cogente che le strutture private dessero il loro immediato supporto.
E, naturalmente, last but not least, che noi calabresi rispettassimo, come con grande senso civico abbiamo fatto durante la prima ondata, le regole igieniche ed il distanziamento sociale, mezzi di comprovata efficacia, assieme alla serrata, per contenere i danni della pandemia.
Domenico Minniti
Presidente AAROI EMAC Calabria
Associazione Anestesisti Rianimatori Ospedalieri Italiani – Emergenza ed Area Critica