Come ripensare il sistema sanitario dopo questa pandemia
Ormai è assodato che il COVID 19 ha mostrato la necessità di ridisegnare in modo generativo il Sistema Sanitario Nazionale. Qui proponiamo alla luce di alcuni apprendimenti derivanti dalla pandemia quali sono le questioni centrali per ripensare il Sistema Sanitario per il tempo che verrà. Si tratta di ripensare o rilanciare alcuni caratteri che già aveva in sé il nostro sistema sanitario ma che le politiche di austerity di questi decenni e il modello imperante di politiche genuflesse al new public management degli ultimi annihanno di fatto stravolto
Alcuni insegnamenti
La pandemia da COVID-19 è, per usare un linguaggio sociologico, un fatto sociale totale, ossia un fatto che coinvolge l’individuo e il sistema sociale a livello micro, meso e macro. Si tratta di un evento sistemico. Edgar Morin[1] descrive così la pandemia in corso:
“Stiamo vivendo una tripla crisi: quella biologica di una pandemia che minaccia indistintamente le nostre vite, quella economica nata dalle misure restrittive e quella di civiltà, con il brusco passaggio da una civiltà della mobilità all’obbligo dell’immobilità. Una policrisi che dovrebbe provocare una crisi del pensiero politico e del pensiero in sé. Forse una crisi esistenziale salutare. Abbiamo bisogno di un umanesimo rigenerato, che attinga alle sorgenti dell’etica: la solidarietà e la responsabilità, presenti in ogni società umana. Essenzialmente un umanesimo planetario”. [Edgar Morin,].
Ci troviamo a vivere un evento di portata mondiale, una patologia delle interconnessioni,che modificherà la nostra cultura, il nostro essere al mondo.
In questa sede non possiamo affrontare tutte le diverse dimensioni e implicanze della pandemia di COVID-19, ci concentreremo sui temi della salute.
Innanzitutto analizzeremo alcuni apprendimenti generali per poi delineare i punti essenziali intorno ai quali sarà necessario ridisegnare il Sistema Sanitario del futuro
Che cosa abbiamo imparato
La pandemia da COVID-19 ha rimesso al centro delle decisioni pubbliche e delle priorità individuali i temi riguardanti la salute, sia collettiva che individuale, quale bene comune.
Ha evidenziato che, come sostiene Amartya Sen[2], la salute è un bene essenziale per l’individuo. La sua promozione e il suo mantenimento sono fondamentali affinché ogni persona possa essere un attore a pieno titolo della società.
L’ emergenza sanitaria ha evidenziato che la salute è un bene che ha una valenza anche di tipo economico, non solo perché si producono prodotti e merci dedicate (dispositivi medicali, farmaci, vaccini, sistemi di protezione, app, filiera biomedicale, strumenti di telemedicina, personale sanitario, ecc.) ma anche perché l’economia e il lavoro richiedono individui in salute e contesti sani che favoriscano la salute. Gli ambienti di lavoro, infatti, non possono solo produrre merci ma devono anche produrre salute garantendo il benessere e la sicurezza dei lavoratori e delle lavoratrici.
E’ emerso poi come la salute sia un bene essenziale per la sicurezza di un paese (economica, militare, commerciale) ed essa rappresenta un diritto di cittadinanza inalienabile, capace di garantire le libertà di scelta degli individui.
In questa fase di COVID-19 abbiamo potuto osservare che in alcuni che per garantire la salute si possa correre il rischio di interferire con la libertà individuale e collettiva.
In alcuni Paesi si è colto questa emergenza come occasione per restringere le libertà degli individui, si veda il caso dell’Ungheria.
La storia della medicina e lo sviluppo della clinica ci forniscono numerosi esempi di restrizioni delle libertà e dei diritti sociali, civili e culturali in nome della salute, ricordiamo a tal proposito la storia degli ospedali psichiatrici (Micheli[3]). Pur condividendo l’esigenza di un maggiore controllo sociale per ridurre la diffusione della pandemia, dobbiamo prestare particolare attenzione alle nuove forme che questo assume in quanto possono essere lesive delle libertà fondamentali di una società.
I dati relativi ai contagi, la velocità di diffusione del virus COVID-19, il numero dei Paesi e dei continenti interessati, hanno mostrato che la salute ha carattere individuale, locale, nazionale e globale. Che non può esserci salute per i singoli se non si ha salute per tutti.
Tutti gli ambienti e i contesti debbono generare salute a partire dai luoghi di Lavoro (medicina del lavoro) compresi quelli preposti alla cura. La salute non può che essere un carattere centrale di tutte le politiche pubbliche.
Abbiamo poi avuto ulteriore conferma del fatto che la salute è legata ai comportamenti, alle abitudini, agli stili di vita oltre che in alcuni casi alla presenza di farmaci. Così come le istituzioni totali (RSA, carceri e in alcuni casi gli stessi ospedali) possono produrre malattia, in questo caso diffondere il contagio, la iatrogenesi di cui ci ha parlato Illich[4], ossia la produzione di malattia a seguito degli effetti negativi dell’intervento medico.
La pandemia in corso ha anche evidenziato quanto le nuove tecnologie, la e-health e la telemedicina siano importanti e utili nei processi di cura e sia possibile superare il digital divide nell’uso di questi strumenti, cosi come l’utilità della robotica sia per attività di routine come somministrare farmaci, ma anche per agire in ambienti “sporchi” da COVID-19.
E’ apparso chiaro che la presenza di un sistema sanitario pubblico ed universalistico sia dirimente rispetto agli esiti di salute, di malattia e di mortalità. Basti confrontare la situazione del nostro sistema sanitario, pur con le molte criticità della fase attuale (il suo modello di spesa, le destinazioni e le scelte che l’hanno orientata, il sotto finanziamento, la carenza di organico, lo smantellamento dei servizi di prevenzione, ecc.), e quello degli Stati Uniti, nel garantire accesso alle cure.
Indipendentemente dal modello verso il quale si sono orientate le diverse Regioni (ognuna con il proprio sistema sanitario determinando così la convivenza di venti e più sistemi sanitari, in un solo Paese) la presenza di un servizio sanitario pubblico ed universalistico si è confermato comunque una risorsa centrale, ben oltre gli errori e i limiti dei singoli casi.
La differenza è proprio riconducibile all’organizzazione dei singoli servizi sanitari e ai diversi esiti in termini di decessi, di ricoveri e di contagi, di cui abbiamo un esempio illustrativo mettendo a confronto il caso della Regione Lombardia con quello della Regione Veneto, le quali hanno fatto scelte opposte, la prima ha privilegiato il ricovero ospedaliero, la seconda più i servizi del territorio, con esiti di mortalità e di contagio assai diversi a sfavore della Lombardia.
Nel confronto fra le due Regioni non va sottovalutato che stiamo paragonando territori che hanno velocità di sviluppo e produttive differenti e specifici, si pensi alla densità di popolazione, agli scambi internazionali, alle attività industriali, alle modalità d’interazione sociale, al sistema dei trasporti e non ultimo il numero delle strutture sanitarie.
Abbiamo poi potuto comprendere, sempre in riferimento alle due Regioni citate, come la medicina del territorio (cure primarie e servizi di prevenzione) sia stata dirimente rispetto alla medicina ospedalocentrica. Stiamo confrontando la medicina dell’iniziativa (cure primarie) e la medicina dell’attesa (assistenza ospedaliere) all’interno di sistemi sanitari considerati tra i più efficienti.
Puntare sulle sole strutture ospedaliere, pur riconoscendo che in tempo di COVID tali strutture hanno mostrato una flessibilità e una capacità di trasformazione e di riorganizzazione straordinaria e inimmaginabile, non è stato sufficiente e in alcuni casi errato, perché è necessario produrre condizioni di salute nel territorio.
La carenza di posti letto in terapia intensiva, e la non adozione di piani d’intervento per le emergenze, evidenzia l’incapacità a trattare le persone prima della necessità del ricovero sul territorio e al proprio domicilio.
Un ulteriore elemento di apprendimento è legato alla capacità di previsione della pandemia e del suo andamento ed incidenza nei diversi contesti territoriali. Il nostro sistema sanitario e i sistemi sanitari regionali non sono stati in grado di cogliere i segnali in anticipo della virulenza del nuovo coronavirus, ben oltre al fatto che tutti i Paesi del mondo si sono trovati spiazzati da questo evento i cui confini e le relative conoscenze scientifiche sono ancora tutte da tracciare.
Le competenze epidemiologiche, gli osservatori epidemiologici, gli organismi preposti alla analisi delle malattie infettive, in questi anni, al pari di quello che è successo per il sistema territoriale dei servizi, per il personale sanitario, sono stati cancellati o ridotti a meri organismi burocratici, minando così la loro capacità di rilevazione di dati e informazioni utili per orientare e strutturare azioni conseguenti e appropriate. Basti ricordare che nel 2003 era stato istituito il CNESPS (Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute) per studiare i casi dell’influenza aviaria e dell’influenza suina. Tale istituto avrebbe dovuto individuare i primi contagi e acquisire i dati per determinare le curve epidemiche, ma nel 2016 è stato chiuso.
Per quanto riguarda gli Osservatori epidemiologici troppo frequentemente sono caselle vuote dell’organigramma Aziendale, perché al pari di molti altri servizi il personale è in numero insufficiente.
Ciò nonostante le epidemie costituiscono una realtà concreta, il cui andamento ciclico ci costringe a fronteggiare periodicamente i loro effetti, e con un ritmo sempre più serrato. Le nostre società si dovranno confrontare con esse sistematicamente.
A tal proposito ricordiamo le date dellepiù recenti pandemie: 1957/58 influenza asiatica; 1968/69 influenza di Hong Kong; 1997 l’influenza aviaria, 2002/03 la Sars; 2009 l’influenza suina; 2015 la MERS; e 20019/20 COVID-19.
E’ emerso altresì che la diffusione del COVID-19 non è tanto o solo una questione virale, esso pone problemi che oltrepassano l’ambito strettamente medico, pur nella sua centralità. La pandemia, che ha rilanciato e legittimato il ruolo degli esperti e degli scienziati,pur esigendo indicazioni generali non può essere affrontata in modo standardizzato e riduttivo ma richiede una visione pluridisciplinare e sistemica con un forte coinvolgimento di tutti gli attori di un territorio, in considerazione delle specificità locali, senza derogare però alla necessita di garanzie nazionali.
Abbiamo poi appreso, cosa da non sottovalutare, che la pandemia ha un impatto sulle disuguaglianze di salute e sulla distribuzione dei determinanti di salute a seconda dello status socioeconomico: le pandemie incrementano le disuguaglianze sociali in salute.
Alla luce di quanto sopra sintetizzato, individueremo alcuni caratteri essenziali di un nuovo sistema sanitario pubblico capace di fronteggiare le emergenze ma anche la quotidianità della salute e della malattia, compresa quella della transizione epidemiologica, delle cronicità, delle nuove e vecchie dipendenzeche assieme alle disuguaglianze di salute rappresentano le nuove sfide per la salute futura.
Dal nostro punto di vista si tratta di ripensare o rilanciare alcuni caratteri che già aveva in sé il nostro sistema sanitario ma che le politiche di austerity di questi decenni e il modello imperante di politiche genuflesse al new public management degli ultimi annihanno di fatto stravolto.
Ricordiamo, a puro titolo esemplificativo, che tale tendenza ha interessato la maggior parte dei sistemi sanitari europei, ma l’Italia ha continuato negli anni la sua politica di austerity iniziata con la crisi del 2008 portando ad una riduzione della spesa sanitaria ferma nel 2018 al 6,5% del PIL. Fra il 2007 e il 2017 il personale sanitario e stato ridotto di ben 38000 unità. I posti letto sono passati da 7.2 ogni mille abitanti del 1990 al 3.2 ogni mille abitanti del 2017.
La scoperta tardiva, a epidemia già esplosa, della centralità dellasalute dell’individuo, l’importanza di investire nella nostra sanità e dare priorità alle reti di cura territoriali di alcuni decisori pubblici è una conferma di come oggi paghiamo scelte che si sono stratificate negli ultimi decenni.
Da dove cominciare?
Poiché è oramai assodato che il COVID-19 non sparirà d’incanto, in attesa del vaccino che richiederà un tempo non immediato, bisognerà attrezzare un sistema sanitario capace di fronteggiare le emergenze, più resiliente e più equo. Parallelamente dobbiamo rilanciare il nostro sistema sanitario intorno a pratiche di cura strutturate e allo stesso tempo flessibili tali da garantire il fronteggiamento di vecchie e nuove patologie, avendo presente gli scenari futuri di salute e di malattia[5] (Tognetti Bordogna 2017).
Questa drammatica e difficile esperienza deve diventare un’occasione importante per ripensare il nostro sistema sanitario e non solo, proprio perché non saremo più come prima. Si tratta di una sfida generativa che va colta da subito.
Sui tempi brevi ovviamente non ci resterà che seguire le indicazioni che ci verranno fornite nei prossimi mesi e che così sono state sintetizzate dal Ministro della salute: mascherine e scrupoloso distanziamento sociale (distanziamento spaziale) nei luoghi di vita e di lavoro; rafforzamento delle reti sanitarie locali; Covid Hospital; tamponi e test sierologici su larga scala, una volta che questi ultimi verranno validati; e strategie di contact tracing e di teleassistenza con l’utilizzo delle nuove tecnologie.
Servirà anche un trattamento tempestivo, potenziando la medicina territoriale, quest’ultima apparsa la cenerentola delle cure in molte Regioni, rafforzamento delle USCA (unità speciali di continuità assistenziale) per la presa in carico precoce e la cura a domicilio dei pazienti COVID.
Fondamentali saranno linee d’indirizzo puntuali per un coordinamento fra questi servizi onde evitare la frammentazione dei servizi e delle decisioni come emerso nel corso della pandemia e per evitare di sovraccaricare gli ospedali e scongiurare ricoveri tardivi in terapia intensiva.
Un maggior coordinamento fra centro e periferia, fra scelte nazionali e scelte territoriali, anche se la riforma del titolo V andrebbe rivista non solo alla luce degli errori e delle criticità mostrate dai diversi sistemi sanitari regionali, dalle differenti scelte dei singoli Governatori, ma anche per quelle emerse all’interno della protezione civile, la cui articolazione regionale ha costretto a ricorrere ad un commissario speciale per garantirne il buon funzionamento.
Rilancio della prevenzione, la complessità delle malattie con il loro carattere di cronicizzazione, nonché delle pandemie, il peso che assumono nella loro incidenza le condizioni di vita e le caratteristiche degli ambienti richiedono che la prevenzione, quella vera di maccacariana memoria (Maccacaro[6]) sia rimessa al centro del sistema di cura.Solo la rimozione dei fattori di rischio e il cambiamento degli stili di vita garantirà una salute migliore per tutti.
Aumento della Health Literacy, ossia della capacità delle persone di acquisire un livello di conoscenze e abilità personali tali da contribuire al miglioramento della salute individuale e di comunità, mediante il cambiamento degli stili di vita individuali nonché delle proprie condizioni di vita. Una adeguata Health Literacy consentirà agli individui di fare scelte migliori per se stessi e per la propria comunità.
L’interdipendenza, sempre più elevata, fra ambienti di vita e di lavoro, ma la stessa epidemia con i suoi caratteri, pongono come prioritaria la promozione della salute nei luoghi di vita e di lavoro. Sono proprio gli ambienti di lavoro che necessitano di un radicale intervento per la garanzia della salute dei lavoratori, per cicli produttivi sani e ambienti che producano benessere oltre che manufatti. Ancora una volta bisogna potenziare le risorse di professionisti dedicati ma si tratta anche di introdurre metodologie, pratiche di coinvolgimento e di attivazione dei lavoratori su questioni che sono state lasciate scivolare troppo frequentemente in secondo piano in nome della produttività fine a se stessa.
Incremento della medicina territoriale e delle cure di prossimità, che sono state sistematicamente smantellate in questi decenni. Oltre ad un potenziamento degli organici è necessario ricomporre la frammentazione fra i diversi sistemi di cura, ospedalieri e territoriali, i quali non possono che costituire un unico sistemabasato su di un piano organico. Abbiamo grandi esempi a cui tornare ad ispirarci, i distretti socio sanitari, le case della salute nei progetti originali. All’interno di questo sistema si dovrà agire per garantire un ruolo più attivo sia dei medici di famiglia, dei pediatri di libera scelta e degli altri medici di medicina generale quale interfaccia effettiva e di snodo fra specialistica e cittadini, a partire dalla medicina associata.
Un sistema integrato concreto che si fonda sulla grande disponibilità di tecnologie della comunicazione e dei big data. Servono però indicazioni precise perché tali strutture diventino una rete attiva per eliminare il rischio della frammentarietà degli interventi che abbiamo sperimentato con costi umani elevatissimi e vere e proprie stragi (basti pensare alle RSA non solo con i suoi troppi morti ma anche con i molti errori di gestione dei contagi, la non adozione di misure restrittive se non troppo tardi, la mancanza di dispositivi di sicurezza, ecc.). Una soluzione possibile potrebbe essere quella di pensare ad un centro di coordinamento unico affinché la continuità assistenziale e di ricovero, fra territorio e ospedale, sia garantita.
Incremento della diffusione delle nuove tecnologie e della telemedicina. L’ emergenza che stiamo vivendo ha concretamente mostrato come sia possibile fare un passo avanti per tutti (i lavoratori con il cosiddetto lavoro leggero, gli insegnati con le lezioni da remoto; i professionisti della salute con la telemedicina, ecc.) per una reale diffusione di nuove tecnologie in tutti i territori e in tutte le strutture della salute. La telemedicina che è già utilizzata con successo dalle associazioni di volontariato in molti paesi africani, ma largamente assente nelle nostre strutture pubbliche, consente un effettivo monitoraggio delle condizioni cliniche dei pazienti e un loro controllo da remoto. Oltre a consentire un tipo di assistenza particolarmente utile per pazienti COVID risulta essere strategica per tutti coloro, come gli anziani, che sono affetti da pluri-patologie e che non necessitano del ricovero (spesso fonte di infezioni ospedaliere) ma che non possono gestire da soli la propria condizione di salute perché privi di reti di cura, o perché vivono in zone poco servite o sono isolati nei territori montani o nelle aree interne meno ricche di risorse. Così come la robotica non potrà essere riservata a settori di nicchia quale la chirurgia ma dovrà diventare parte del sistema per operazioni semplici o routinarie, come già succede in altri Paesi.
Poiché le pandemie aumentano le disuguaglianze sociali in salute oltre a prevedere misure di sostegno a partire da quelle economiche per le persone e i nuclei in difficoltà è bene non sottovalutare le disuguaglianze derivanti dalla carenza di risorse tecnologiche e per evitare l’incremento di tali disuguaglianze e affinché vi possa davvero essere una maggiore diffusione del “lavoro leggero” occorre mettere i cittadini nelle condizioni di poterne usufruire equamente (wi-fi gratuito, per esempio, per docenti e studenti, computer, babysitter per favorire la conciliazione tempi di vita con tempi di lavoro, sostegno di vario tipo per famiglie con basso capitale economico e culturale ecc.).
Strutturazione di un sistema di monitoraggio e di big data, potenziamento degli osservatori epidemiologici. Il monitoraggio dell’andamento delle epidemie, della salute della popolazione, necessita di strutture adeguate sul piano delle competenze e dell’organico per creare una infrastruttura unica che dialoghi e connetta centro e periferia. La presenza di più centri di competenza in materia non allineati e in rete e che agiscono in totale autonomia oltre che non consentire di avere un quadro aggiornato e sistematico della situazione della salute nel nostro Paese, non può fornire informazioni utili in sede di programmazione e di scelta di politica sociale. Il depauperamento degli osservatori epidemiologici in questi anni ne è una conferma. I dati sono utili se concorrono a costruire informazioni a disposizione dei decisori pubblici e non ultimo degli studiosi indipendentemente dallo specifico disciplinare, oltre che dei cittadini che ne fanno richiesta.
Creazione di una rete di ospedali sia ad alta specializzazione sia che possano garantire la continuità di cura rispetto al territorio. Sarà necessario ripensare la rete ospedaliera e le sue interconnessioni, indipendentemente dalla natura profit o non profit delle singole strutture.Ripensare il loro modello organizzativo.Probabilmente dovremo pensare ad alcuni HUB ospedalieri e a diversi ospedali che fanno della continuità assistenziale il loro punto di forza.
Molti altri sono gli aspetti che richiederebbero un ripensamento, una riorganizzazione, per un miglioramento del nostro sistema sanitario pubblico, che indipendentemente dalle sue articolazioni non può che tornare ad essere nazionale, ma sarà dirimente rilanciare il tema della salute in tutte le politiche pubbliche.
Dobbiamo cominciare ad agire subito e non dopo perché la “ricostruzione” va pensata e programmata e occorre che vi siano dedicate risorse finanziarie adeguate.
Il nostro sistema sanitario ha retto perché i suoi professionisti si sono mostrati nella loro straordinarietà, ma è urgente un ripensamento profondo ed un rilancio del servizio sanitario nazionale, alla luce di un nuovo paradigma in cui il cittadino è messo al centro.
Ricordiamo che i principi fondanti della legge istitutiva del servizio sanitario nazionale (833/78) erano la prevenzione negli ambienti di vita e di lavoro, il territorio con i suoi servizi territoriali e le specificità territoriali, quale ambito privilegiato di produzione e tutela della salute.
Mara Tognetti
Professore Ordinario di Sociologia Generale
Dipartimento di Scienze Politiche
Università degli Studi di Napoli Federico II