Covid-19 e Green pass, che cosa serve per varcare i confini regionali. Ecco i contenuti del decreto legge
Certificato vaccinale verde: l’Europa lo vuole, l’Italia lo norma nel decreto legge 44 che sta per essere convertito. Ma per varcare i confini regionali non basta il referto del tampone oppure l’attestazione di aver ricevuto la seconda dose di vaccino? Molti operatori se lo chiedono, non solo medici di famiglia. La domanda si fa più pressante quanti più sono gli operatori chiamati a vaccinare. In questi giorni, dopo il Lazio, anche Piemonte ed Emilia Romagna stanno mobilitando i propri medici di famiglia per ampliare l’offerta di inoculazioni alle classi d’età più giovani. Il 21 aprile il Piemonte ha chiuso un nuovo accordo per far somministrare agli over60 in studio AstraZeneca e Johnson&Johnson ai medici di famiglia che vaccinano in autonomia. E in Emilia Romagna, la piattaforma su cui inserire i dati della vaccinazione è collegata al fascicolo sanitario elettronico, il tempo rubato al medico è poco. Peraltro, nessuna regione tranne la Provincia di Bolzano con il suo “Coronapass” può dire oggi di rilasciare un passaporto verde con numero identificativo e QR code attestante l’unicità, in chiave nazionale, della situazione Covid di quel dato cittadino italiano.
Previsto dal decreto legge 52 “Riaperture” del 26 aprile scorso, il certificato verde per spostarsi tra regioni di colore diverso od accedere ad eventi, va rilasciato – cartaceo o su telefonino secondo richiesta – in tre casi: a seguito di vaccinazione e dura sei mesi (tanto durano gli anticorpi come convenzionalmente fissato), a seguito di negativizzazione di soggetto contagiato, anche qui durata sei mesi dalla data dell’ultimo tampone negativo, o a seguito di tampone (molecolare od antigenico) eseguito a “random” con esito negativo dal medico o in farmacia. Il rilascio dovrebbe spettare all’hub vaccinale o al professionista che esegue la seconda dose vaccinale, inclusi il Mmg o il farmacista, che dovrebbero inserire il dato nel fascicolo sanitario elettronico archiviato sul server regionale/nazionale Sogei. Per i contagiati, spetta all’ospedale all’atto della dimissione del ricoverato, o al dipartimento d’igiene Asl (ma in qualche caso può essere di fatto coinvolto il medico di medicina generale). Per il tampone, spetta alle strutture sanitarie pubbliche e private autorizzate o accreditate e alle farmacie o ai medici di famiglia o pediatri che eseguano i tamponi. Il pass 1 dei vaccinati indica per legge nome cognome data di nascita del vaccinato, stato di vaccinazione, numero di dosi somministrate, tipo di vaccino, nome della struttura che detiene il certificato e identificativo del vaccinato. Il pass 2 (guariti) indica nome cognome data di nascita, malattia data del primo test positivo e dell’ultimo, stato in cui è stata certificata la guarigione e struttura che ha rilasciato il certificato, identificativo e validità del documento. Il pass 3 (tampone) indica estremi, paese, tipo di test, produttore, data ed orario di raccolta del campione e consegna del risultato, numero identificativo unico.
Al momento le Asl non rilasciano certificati specifici, la risposta che rimbalza è: “siamo in attesa di saperne di più” e al viaggiatore non resta che autocertificarsi. Il Garante della Privacy in effetti ha fermato il decreto sostenendo che potrebbero essere inseriti molti meno dati, e si potrebbe evitare di menzionare la causa che ha portato al rilascio di quella specifica tipologia di certificato. Ma il ragionamento che più contrasta con il “passaporto vaccinale italiano” è che i dati nei referti dei laboratori che elaborano i tamponi e nei certificati vaccinali ci sono già.
«Che senso ha produrre un secondo documento che riporta identiche informazioni, da parte di un medico o di una struttura?», si chiede Fabio Vespa segretario Fimmg Emilia Romagna. Nella sua regione è stato raggiunto l’accordo per vaccinare dal 31 maggio i 50-59 enni, e le classi di età più giovani – da 51 a 54 anni – saranno convocate dal medico curante che intanto va completando le somministrazioni al personale docente, con prime dosi di Pfizer e seconde di AstraZeneca. «Ogni volta che vacciniamo, inseriamo i dati della prestazione nel portale regionale che consente di agganciarsi al fascicolo sanitario e di riportare in un unico documento tutte le vaccinazioni fatte inclusa quella contro il Covid-19. Io porto in tasca copia cartacea del documento che mi riguarda. Ma non è esattamente il certificato vaccinale previsto nel decreto. Né lo è il referto del tampone o il certificato di fine isolamento rilasciato dal Servizio d’Igiene Asl senza cui il contagiato non può muoversi da casa. Eppure – sottolinea Vespa – in quei documenti ci sono tutti i presupposti per cui un cittadino possa spostarsi in altra regione. Non si capisce perché rilasciare altro documento, tra l’altro – nel caso ci si rivolga al medico di famiglia – in libera professione e quindi potenzialmente a pagamento. Ma pagare, perché, poi? Ricordo che per un medico una certificazione su dati constatati da altri non è legittimata nemmeno dal codice deontologico che la vieta all’articolo 22». Basterebbe un’autocertificazione? «Forse il governo potrebbe ritenerla inidonea, ma ciò non vale per le certificazioni che già ci sono e abbiamo citato».