Ospedale, l’esercito dimenticato nella prima linea contro il Covid
FONTE LA GAZZETTA DI PARMA
CHIARA CABASSI
Siamo al cambio di fase dell’epidemia. Mentre la città aspetta nuove modalità di libertà, per le professioni sanitarie, impegnate nell’emergenza Covid, non si può parlare di cambio di passo.
Radiologi, fisioterapisti, addetti alle pulizie, operatori socio sanitari, tecnici di laboratorio e addetti al trasporto delle cartelle cliniche. «Una macchina funziona bene perché funzionano bene tutti i suoi ingranaggi», dice Giuseppe De Nunzio, infermiere al padiglione Covid Barbieri.
Al Maggiore i reparti Covid svuotati, dopo le sanificazioni, stanno tornando alle tradizionali destinazioni. La guerra non è finita, ma in tanti l’hanno combattuta e grazie a tutti loro, Parma ha meno paura e può voltare pagina.
LA FISIOTERAPISTA
Stefania Allegri è fisioterapista da 15 anni. Insieme ai colleghi della Medicina riabilitativa, oltre ai pazienti consueti, hanno seguito da vicino i pazienti affetti da Covid-19. «E’ stato come tuffarsi in un mare in tempesta: dentro una patologia sconosciuta, una situazione critica dove insieme abbiamo studiato un approccio riabilitativo completo, sia dal punto di vista respiratorio che motorio. Nonostante la paura del contagio e di diventare un veicolo per i nostri famigliari siamo andati in prima linea offrendo una prospettiva di recupero. Partendo dalle cose più semplici come mettersi seduti, fare qualche passo e tecniche per respirare meglio.
In due, per ogni malato Covid, anche che per lavorare in sicurezza, con l’ingombrante tuta bianca e i tanti tubicini dei ventilatori, dell’ossigeno e delle terapie. Con i pazienti in sedazione delle terapie Intensive, iniziamo il prima possibile a muovere sia le gambe che le braccia per evitare i danni di una prolungata immobilità.
Pazienti che vivono in un isolamento fisico ed emotivo-affettivo a cui cerchiamo di sorridere con gli occhi e di dare energia per tornare a vivere», dice Stefania.
L’ADDETTA ALLE PULIZIE
Petronela Grigoras ha poco più di quarant’anni, da quasi la metà è un’addetta alle pulizie. «I turni, le sanificazioni, le chiacchiere coi pazienti sono parte di un lavoro che mi è sempre piaciuto e che in ospedale è parte integrante della routine dei reparti. Lavoro per il gruppo cooperativo Colser, che ha appena fatto una significativa donazione per i reparti Covid. Quando il virus è arrivato nel mio reparto di Torre delle Medicine, la vita è cambiata improvvisamente: tute sigillate, mascherina, visiera, caldo, fame, sete, paura. Ad ogni cambio piano, ad ogni reparto, una nuova vestizione».
Il Covid, spiega, ha reso strategici «la sanificazione e la pulizia degli ambienti e le squadre hanno dovuto intensificare l’attività. Ho immagini strazianti di quei giorni e momenti di umanità che non potrò dimenticare. Ho sventolato mani e braccia davanti ai vetri di una camera per far vedere ai genitori, almeno da lontano, dove fosse ricoverato il figlio. Noi e i sanitari siamo stati per i ricoverati gli unici contatti. Per noi anche a casa ci sono i volti di chi non ce l’ha fatta e la paura di portarsi dietro questo nemico invisibile».
I «MESSAGGERI»
Anche il team dell’Unità trasporto esami è stato dietro le quinte della guerra al Covid: 26 persone che compongono un servizio che ha mantenuto la comunicazione e l’invio di materiali tra i reparti, gli ambulatori e i laboratori di analisi. «Nei reparti Covid, una volta che il personale chiudeva le porte sigillanti, noi diventavamo l’anello di comunicazione con il mondo esterno: le cartelle cliniche, i tamponi all’istituto d’igiene di via Volturno, i prelievi da analizzare, i referti, sono stati portati in un carosello continuo da noi – dice Gemma Ferraro del team – Abbiamo chiesto più dispositivi di protezione e cercato, nonostante le ore di lavoro si accumulassero, di essere più accorti. Il nostro lavoro ha accompagnato quello che è stato fatto dietro le porte chiuse».
L’immagine che non si può dimenticare? «Una notte, nelle tende all’esterno del pronto soccorso – dice un altro della squadra – Erano in tanti seduti sulle sedie, tremavano di febbre, freddo e paura. Intorno scaricavano bombole d’ossigeno. Non ho vissuto la guerra, ma quella notte è la cosa che ci assomiglia di più».
LA RADIOLOGA
Valentina Lunari, tecnica del servizio di scienze radiologiche del Barbieri, ha eseguito la tac del primo paziente Covid e non ha più smesso. «Il 28 febbraio sono arrivati i primi pazienti inviati dal pronto soccorso per cui si sospettava una polmonite. Tutti positivi. Marzo ha segnato il cambio da una normalità di 30 tac a 180 giornaliere svolte aggiungendo turni notturni e personale interinale. In tre secondi il responso. I pazienti arrivavano con le bombole dell’ossigeno, impauriti, nell’urgenza delle crisi respiratorie. Gli anziani venivano catapultati in ospedale solo con un sacchettino con il cellulare e i documenti medici. Dopo il triage nelle tende del Pronto Soccorso venivano portati da noi con una spola di ambulanze continua».
Sospese ferie e congedi. «Da subito bisognava imparare ad indossare tutti i dispositivi necessari, a disinfettare il lettino dopo ogni esame. Tutto in fretta, i pazienti sempre troppi, noi con la paura di fare un gesto sbagliato. Una tragica catena di montaggio. E’ stata davvero dura – conclude Valentina – soprattutto emotivamente. Dopo gli esami noi tecnici non sappiamo più niente, eppure ci pensiamo a tutti quegli uomini e a quelle donne fermi ad aspettare in sala d’attesa e poi portati via. Abbiamo fatto la nostra parte, ma speriamo che non si ripeta. L’emergenza è finita, l’epidemia no».
IL TECNICO DI LABORATORIO
Michele Rignanese è tecnico alla diagnostica ematochimica e presidente dell’albo professionale dei tecnici di laboratorio di Parma e provincia. «Al di là degli ormai celebri tamponi, l’arrivo di un numero così importante di pazienti da monitorare ha sviluppato una mole critica di lavoro che ha reso necessario raddoppiare le presenze in turno – spiega – L’infezione viene monitorata con numerosi esami, strategici per i medici, sia per calibrare le terapie farmacologiche che i problemi di ventilazione. All’inizio, come per tutti, c’è stato un sentimento di paura. Non sapevamo il livello di potenziale contagio che i sieri infetti potevano trasmettere. Un senso di paura ha come sospeso il tempo e lo stress è stato enorme perché davvero gli analizzatori erano sempre pieni di provette. Abbiamo visto i numeri dei referti che raccontavano di quanto i pazienti stavano male. Per la prima volta, nel nostro lavoro, avevamo la consapevolezza che ogni campione analizzato apparteneva ad un uomo o una donna che stava lottando per la sua vita».
GLI OPERATORI SOCIO SANITARI
Cristina Genovesi racconta l’emergenza Covid nei panni degli operatori socio sanitari. Gli ambulatori di neurologia sono stati la sua prima trincea. Due operatori per 23 posti letto dedicati ai pazienti «grigi», cioè con tac positiva alla polmonite, ma in attesa di tampone. Col passare delle settimane e la riorganizzazione post-picco, Cristina è tornata in quello che oggi è il pronto soccorso “sporco”, cioè il triage destinato ai pazienti con sintomi compatibili con l’infezione. Gli operatori socio sanitari sono gli assistenti dei malati, si occupano della loro pulizia, dell’aiuto ai pasti, della sistemazione delle stanze.
«Si sono allungati i turni e si sono aggiunte le notti. Tutti noi sapevamo che andava fatto e abbiamo aderito alle nuove disposizioni – dice Cristina – Quando mi hanno dato la tuta e i tutti i presidi necessari mi sono sentita in grado di affrontare la situazione senza paura, e tante persone avevano bisogno di aiuto».
Sigillati dalle tute e dalle visiere, gli operatori socio sanitari hanno lavato, cambiato, imboccato, sistemato le camere e, quando hanno potuto, rincuorato i pazienti Covid passati dal Maggiore.
«Dipendeva dalle condizioni cliniche dei pazienti e dal tempo a disposizione, sempre poco, ma quando abbiamo potuto, li abbiamo aiutati anche a telefonare a casa. Per molti sono stati momenti preziosi, per troppi l’ultima parola scambiata coi figli. Ho tenuto il telefono ad una signora senza sapere che dopo qualche minuto le avrebbero messo il casco ossigeno. Sua figlia mi ha cercata sui social per ringraziarmi: la sua mamma non ce l’ha fatta. Noi siamo stati e siamo forse quelli più a contatto con i malati Covid. Questo ha lasciato dentro di noi momenti che ci hanno segnato per sempre, e professionalmente ci impone di mettere sempre la prevenzione al contagio come priorità» conclude.
GLI «INVISIBILI»
Nel mare delle tute bianche hanno nuotato davvero in tanti. Rimarrà l’icona dell’infermiera cremonese che abbandona stremata la testa sulla tastiera del computer. Ma più si cerca di farsi un’idea, più si capisce che è stata una catena di mani a fare da argine, che tutto un esercito si è buttato in avanti, verso la prima linea.
«Tutti questi, e molti altri operatori della sanità, insieme a medici ed infermieri, a casa non abbracciano i loro bimbi, indossano sempre la mascherina perché ogni giorno sfidano il contagio. Vorrei che fossimo meno invisibili – dice Giuseppe De Nunzio – Prima del Covid abbiamo già vissuto il rischio della violenza contro i sanitari. Speriamo che certi episodi non si verifichino più. Ora ci chiamano tutti eroi. Se davvero siamo gli eroi di questa generazione, non è giusto trattarci da tali?».