Pnrr. Una gestione quasi da croupier
Tante Case delle comunità (CdC), tanti Ospedali di Comunità (OdC) piuttosto che tante Centrali Operative Territoriali (COT) da mettere a terra nel medio periodo, con appalti da perfezionare entro il prossimo mese di ottobre. Tutto questo prescindendo da quella indispensabile programmazione regionale che manca ovunque, attraverso la quale esprimere le motivazioni giustificative delle rispettive allocazioni
Si discute tanto sulla grande occasione fornitaci dall’UE di potere dotare il Paese di una vasta gamma di strutture, da dedicare all’assistenza sanitaria territoriale. Lo si fa, tuttavia, non come si dovrebbe, vista anche l’esperienza negativa registrata con la pandemia.
Un ruolo quasi da croupier
Ci si è impegnati, a livello centrale, esclusivamente a preventivare la modalità della spesa finanziata con il PNRR, missione 6, ripartendola tra le Regioni con il solito aberrante criterio della entità residenziale dei cittadini. Senza peraltro tenere conto della reale e consistente presenza, in alcune aree, di chi cittadino non è, ancorché individuo cui la Costituzione (art. 32) assegna specificamente il diritto alla tutela della propria salute.
Quindi, tante Case delle comunità (CdC), tanti Ospedali di Comunità (OdC) piuttosto che tante Centrali Operative Territoriali (COT) da mettere a terra nel medio periodo, con appalti da perfezionare entro il prossimo mese di ottobre. Tutto questo prescindendo da quella indispensabile programmazione regionale che manca ovunque, attraverso la quale esprimere le motivazioni giustificative delle rispettive allocazioni.
Un problema grosso per la nazione, specie quella più storicamente disagiata (i calabresi più degli altri), che ne dovrebbe godere a breve e a sensibile risarcimento di ciò che ha patito con il Covid a causa di un Servizio sanitario nazionale disarticolato che ha fatto flop assoluto nel territorio e relativo nell’assistenza ospedaliera emergenziale.
La struttura (come il vecchietto) dove la metto?
A fronte di tutto questo gravoso impegno, si diceva, nessun programma, degno di questo nome redatto e reso noto. Non solo. Fatta una rara eccezione peraltro non entusiasmante, nessuna legge regionale approvata (in questa rivista del 17 gennaio 2022) nel senso proprio di pianificare i rispettivi massicci interventi progettuali e realizzativi; nessuna rilevazione, a monte, del fabbisogno epidemiologico, fatta eccezione per quelli vintage (fermi al 2018) per distribuire con equità l’ubicazione delle strutture previste; nessuna considerazione attribuita agli oramai immancabili indici di deprivazione socio-economica e culturale, specie di quelli accentuati con il Covid omidiciario.
Ma soprattutto, nessuna co-programmazione preventiva con i professionisti convenzionati, con gli accreditati contrattualizzati, con gli erogatori del socio-assistenziale, ai quali dovere strappare il massimo della collaborazione possibile nel disegnare una rete realmente garante dell’assistenza del territorio.
Gli enti locali, il nulla assoluto, solo pretese
E i sindaci, da sempre autorità sanitarie locali? Tranne qualcuno e le solite suonate associative si sono singolarmente limitati a rivendicare la maggiore presenza di strutture, ciascuno nel proprio comune, piuttosto che impegnarsi generosamente ad instaurare un clima assistenziale di tipo autenticamete solidaristico improntato a cedere per soddisfare i più bisognosi di tutela del diritto alla salute.
L’insieme assistenziale, l’eterno assente
Insomma, un bailamme che, con la corsa alle date imposte correttamente dal soggetto attuatore, senza però considerare i fenomeni discriminanti dovuti alle Regioni in arretratezza congenita, fa correre il rischio (per dirla alla Goya) di «generare mostri». E sarebbe un vero peccato mortale. L’esperienza della ipotesi sperimentale della Case della Salute, oggi da assorbire nella rinnovata griglia delle strutture di territorio, non ha insegnato nulla ai decisori, quanto ai flop registrati. Così come hanno fatto le aggregazioni della medicina di famiglia (Aft) e le strutture multiprofessionali (UCCP) ferme al palo, peggio che nelle partenze al Palo di Siena, nonostante i forti incentivi economici attribuiti a quelle a gestione cosiddetta autonoma.
Gli adempimenti ineludibili
Si diceva, dei nuovi presidi che arricchiranno il sistema territoriale di assistenza sociosanitaria, da identificarsi con leggi e votati ad arricchire le prestazioni distrettuali, in molte regioni limitate a cure burocratiche e a favorire imboscamenti di operatori non volenterosi. Andranno, ovviamene, individuati e organizzati dalle ASP con i rispettivi atti aziendali, subito dopo l’individuazione delle allocazioni perfezionate secondo i criteri demografici e di fabbisogno epidemiologico emergente di una assistenza sociosanitaria da distribuire equamente sul territorio.
Una tale neo-organizzazione sarà strumentale a generare un nuovo modello di erogazione sociale dell’assistenza di prossimità, in quanto tale garante di una maggiore attenzione alla persona umana da esercitarsi nei luoghi in cui alla stessa abbia fissato la propria dimora abituale.
Nel particolare riguarderà:
– la Casa di Continuità, che è da intendersi, in una mera logica di linguaggio sostitutivo di quello pregresso, la concretizzazione integrata e corretta delle già Case della salute, ovunque disegnate a proprio piacimento creativo e, spesso, disintegrativo dei sistemi preesistenti. Essa verrà a concretizzarsi mediante una struttura fisica che garantisca ovunque un’assistenza multidisciplinare primaria, assicurata da personale dipendente e comunque a disposizione del Servizio sanitario regionale, anche in regime convenzionale;
– l’Ospedale di Comunità da ritenersi, nonostante la denominazione più vicina alla spedalità, una struttura sanitaria fissa della rete territoriale. Erogherà prevalentemente assistenza infermieristica, a ricovero breve destinata a pazienti cui necessitano trattamenti sanitari di media e bassa intensità clinica comportanti degenze brevi;
– la Centrale Operativa Territoriale, che è la grande vera novità del disegno prodotto, da intendersi lo strumento organizzativo per la corretta distribuzione dell’individuo bisognoso di ricorrere alle cure del sistema della salute, in quanto tale rappresenta la struttura funzionale dedicata alla presa in carico della persona umana, cui assicura l’accesso intelligente e ponderato sia ai servizi territoriali che a quelli ospedalieri esercitando il raccordo tra le relative strutture aziendali disponibili, ivi compreso il Dipartimento di prevenzione.
Le attenzioni e le cautele
Il problema maggiore che si porrà sarà quello di come e dove aggregarli in un unico insieme produttivo di salute, da mettere certamente in relazione con la rete delle farmacie e delle Aft e Uccp, che si sperano realizzate quanto prima, stando bene attenti a produrre i facili inutili doppioni strutturali.
L’altro problema sarà quello di rendere sostenibili le iniziative, sotto il profilo economico. La loro attività sarà, infatti in capo e a carico dei bilanci aziendali, invero alquanto già malandati in diverse regioni del Mezzogiorno, Calabria in primis.
Due esigenze fondamentali in cerca di una corretta risposta, queste, specie in quelle aree desertificate in termini di assistenza reale, ove ciascuna di essa separatamente non farebbe neppure il solletico in termini di arricchimento di Salute.
Una osservazione finale
Sarebbe un guaio a considerare il PNRR una occasione per arricchire la sanità «immobiliarista». Troppe e drammatiche sono state le esperienze vissute in tal senso. Occorre pensare a come fare per trasformare i presidi finanziati con il PNRR in strutture erogative dei LEA, in modo tale che gli stessi vengano percepiti dalla collettività interessata ai massimi livelli possibili.
Una mission, questa, ineludibile, ma da affrontare e risolvere con la consapevolezza che necessita rendere disponibili alle aziende della salute ampie risorse finanziarie da impegnare in conto funzionamento.
Gli appalti, oggi considerati come se fosse l’obiettivo da perseguire, sono solo l’inizio del problema. Ciò in quanto dopo l’edificazione si dovranno fare i conti (in tutti sensi) con il mantenimento in esercizio delle stesse secondo buona pratica, con tanti costi economici in più da sopportare.
Ettore Jorio
Università della Calabria
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