Proia e Polillo: anche loro nella famiglia del riformista che non c’è
Fonte Quotidianosanita
Nel loro ultimo articolo su QS, Saverio Proia e Roberto Polillo, sostengono in modo piuttosto perentorio che per la sanità non c’è bisogno di “profonde riforme da riscrivere” dal momento che “basterebbe attuare realmente le leggi approvate”. Una tesi, da ogni punto di vista, decisamente improbabile, che non stupirebbe nessuno di noi se provenisse da persone inesperte ma che provenendo da persone che si reputano più che esperte, lascia molto perplessi
Se devo dare un consiglio a chi vuole capire le complessità del nostro dibattito in sanità, suggerisco di esplorare e di cimentarsi tanto con le buone idee che con quelle cattive. Vi assicuro che quelle cattive ci aiutano sia a renderci conto di quanto sia difficile il mondo in cui viviamo sia di quanto sia difficile semplicemente avere delle idee.
Una tesi improbabile e superficiale
Nel loro ultimo articolo su QS, Saverio Proia e Roberto Polillo, (d’ora in avanti P & P) sostengono in modo piuttosto perentorio che per la sanità non c’è bisogno di “profonde riforme da riscrivere” dal momento che “basterebbe attuare realmente le leggi approvate”.
Una tesi, da ogni punto di vista, decisamente improbabile, che non stupirebbe nessuno di noi se provenisse da persone inesperte ma che provenendo da persone che si reputano più che esperte, lascia molto perplessi.
Se fosse come dicono P&P resterebbero da spiegare molte cose:
– come mai anziché attuare la riforma del 78 se ne sono dovute fare altre due,
– come mai anche con tre riforme non si è riusciti a rimuovere in 40 anni le grandi contraddizioni del sistema che non cito perché note a tutti,
– come mai tante cose che avremmo dovuto riformare non sono mai state riformate,
– come mai tante cose che avrebbero dovuto essere nuove sono state “attuate”, direbbero P&P in modo vecchio, per esempio il distretto, il consultorio, l’integrazione e un mucchio di altre cose.
Riscrivere, contro-riformare, riformare
L’unico che ha provato davvero a “riscrivere” la riforma del ’78 è stato Giuliano Amato quando, da presidente del consiglio, ci ha proposto, il ritorno alle mutue e all’assistenza indiretta (ex articolo 9 del Dlgs 502/92, poi cassato dalla Garavaglia con il Dlgs 517/93).
A partire da Amato, chi ha “riscritto” la riforma, nonostante quello che dicono P&P, è stato il centro sinistra di governo, ma sempre con intenti contro-riformatori: nel ’92 ci ha rifilato le aziende, nel ’93 e nel ’99 i fondi integrativi e nel 2001 la riforma del titolo V e oggi il regionalismo differenziato.
L’unico che, in questi anni, per opporsi alla deriva contro riformatrice, si è battuto per riaprire un discorso riformatore sono stato io, con la “quarta riforma”, ma la quarta riforma, come è scritto su tutti i muri, non è, come dicono P&P, la “riscrittura” di una qualche riforma, ma semplicemente il compimento di un progetto di riforma, iniziato 40 anni fa, cioè è il tentavo di riformare quello che avremmo dovuto riformare e che a causa del famoso “riformista che non c’è” non abbiamo mai riformato.
Una bella cantonata
A parte la discutibilità di certe tesi, la cosa che colpisce dell’articolo di P&P, è una smaccata contraddizione tanto da apparire non solo il solito svarione che può capitare a tutti ma un’autentica cantonata e non solo logica:
– da una parte P&P, ignorando la storia recente della sanità, ci dicono che non serve “riscrivere” riforme,
– dall’altra, cito testualmente, scrivono che serve “una politica riformatrice di ampio respiro (…) nuova discontinua e radicale (…) una svolta epocale (…) che superi e rimodelli completamente …ecc”.
A questo punto non mi interessa esplodere la contraddizione per alimentare la polemica, ma servirmene:
– per capire come ragiona, colui che da anni io chiamo “il riformista che non c’è” e che Voltaire chiamava “Il filosofo ignorante”,
– per comprenderecome è fatta la testa di chi, convinto che tutti noi si scenda dalla montagna con la piena, si da arie da maitre a pensér senza essere ne “maitre” e purtroppo senza avere un “pensèe”.
Questa la mia ipotesi interpretativa:
– se è vero che le riforme non si “riscrivono” allora la riforma che P&P ci propongono è falsa, cioè non è una riforma, ma qualcosa di altro,
– abbiamo a che fare con il classico ballon d’essai.
Ancora il gioco dei 4 cantoni
Vorrei dimostrare che il pensiero di P&P, è null’altro che la riproposizione di quel vecchio approccio sindacale che, recentemente, discutendo con il responsabile nazionale della CGIL medici, ho definito dei 4 cantoni, (QS, 18 maggio 2020) del tutto simile come logica:
– a quella del comma 566, delle competenze avanzate, dell’incarico di funzione, della pura apologia dell’esistente,
– a quelle operazioni di riclassificazione previste anche nella piattaforma contrattuale, tutte di natura burocratica,
– a quei trucchi di carta che non sono origami ma solo espedienti normativi, che tentano di spremere le norme come limoni per ricavare un vantaggio in genere a scapito di qualcun altro, e che collocherei nella più classica tradizione dell’invarianza e dell’apologia.
Insomma l’ennesima finta rivoluzione di carta.
La proposta
La premessa da cui partono P&P è che la pandemia ha posto il problema di “riformare radicalmente lo stato giuridico ed economico dei professionisti e degli operatori produttori di salute.”
Come dire che siccome c’è il terremoto dobbiamo cambiare, a muratore invariante, lo statuto giuridico dei muratori, o siccome c’è l’incendio dobbiamo ripensare, a pompiere invariante, la definizione giuridica del pompiere.
Quindi a lavoro invariante, a servizi invarianti a organizzazione del lavoro variante, quindi a parità di sistema, di contraddizioni, di problemi, di diseguaglianze, di ingiustizie, di disfunzionalità, di errori politici, si tratta semplicemente di riconoscere che i lavoratori della sanità sono una “categoria speciale”.
E qui, a parte i problemi di inconsistenza politica della tesi, viene fuori una seconda grande contraddizione.
La categoria speciale è una vecchia idea che i medici, se non sbaglio tra gli anni ’80 e ’90, provarono a perseguire per sottrarsi ai limiti loro imposti dall’appartenere al comparto del pubblico impiego e quindi per sottrarsi alle restrizioni finanziarie imposte alla contrattazione di quel comparto. L’idea generale era quella che i medici, ma solo i medici, fossero considerati una “professione speciale” come i magistrati e quindi liberi da restrizioni finanziarie.
Ovviamente l’idea morì nello stesso istante in cui era nata. Ma evidentemente la lezione non è servita.
Speciale o unica
Rammento che la parola “speciale” nasce dal concetto di “specie”, ogni “specie” in quanto tale è “speciale”, ma se ogni specie è “speciale”, tutti sono in qualche modo “speciali” per cui viene contraddetto l’obiettivo di stabilire una alterità.
La contraddizione che P&P ci propongono nasce dall’aver sbagliato termine: semmai, si volesse sottolineare per la sanità un suo particolare valore categorico, non si tratta di definirla una “categoria speciale” ma, di definirla come una “categoria unica” cioè con una tale specificità da essere impareggiabile.
A rendere impareggiabile la sanità è una persona particolare che si trova solo nella sanità e che si chiama “malato” e che a sua volta costringe con la sua irriducibile complessità, a sua volta unica, tutti coloro che hanno a che fare con lui ad essere a loro volta unici in ogni senso. E’ l’unicità del lavoro in sanità a rendere unica la sanità. Niente altro.
“Unico” vuol dire che non ha eguali o simili nell’ambito particolare in cui si trova e che non può essere parificata in qualche comparto, in un qualche contratto onnicomprensivo, in una qualsiasi stiva.
P&P ci propongono la “categoria speciale” ma a parità di comparto, a parità di modelli contrattuali e ci spiegano che, per meritare la “specialità”, la categoria deve contribuire “all’attuazione” dell’art. 32 ed essere costituita da tante qualifiche.
E’ vero le qualifiche in sanità sono tante ma questa unicità non appartiene a tutte loro, ma solo a quelle che hanno un rapporto diretto con il malato o di cura o di assistenza. Ma di questo parleremo un’altra volta.
Ma a parte questo mi chiedo: ma quanti settori socio-economici attuano in qualche modo la costituzione e sono composti da tante qualifiche? Praticamente tutti. Nella realtà tutti sono categorie speciali, ma quali le categorie impareggiabili?
Soviet
Oltre la categoria speciale dicono P&P si tratta di fare un “accordo quadro di filiera”. Ma in tutta franchezza si fa fatica a capire che cosa sia.
L’accordo quadro, come tutti sanno, nel diritto dell’Unione europea, è una tipologia di contratto utilizzata negli appalti pubblici, che ha, come principale caratteristica, quella di offrire alla negoziazione una base di riferimento volutamente incompleta, rinviando il suo completamento a negoziazioni successive . Ma nella proposta di P&P esso non è un contratto di nessun tipo perché il sistema contrattuale vigente resta invariato, come pure restano invariati i “rapporti giuridici” e le aree contrattuali.
L’accordo quadro, secondo quello che ho capito, è null’altro che una forma di concertazione panottica con lo scopo di governare ex ante tutti i contratti in essere, cioè privati, convenzionati, pubblici dipendenti, al fine, (tenetevi forte) di “giungere ad un intesa unitaria e convergente per l’omogeneizzazione e l’adeguamento dell’organizzazione del lavoro”.
Non so perché ma quando ho letto la proposta, la prima cosa che mi è venuta in mente, a parte immaginare la faccia di alcuni sindacalisti che conosco, è la parola “soviet”.
La concertazione e la filiera
Del resto la tesi politica, non meno pittoresca delle altre, che per P&P giustificherebbe l’accordo quadro è che tutti i guai del sistema, ma proprio tutti, a parte il covid-19, nascerebbero da un difetto di concertazione per cui, per risolvere ogni cosa, servirebbe solo un bel soviet.
Quanto alla “filiera”, che dire, anch’io uso metafore, ma la sanità non è esattamente come una catena agro-alimentare e meno che mai è l’insieme dei servizi e/o aziende che concorrono alla catena che mi permette di mangiare il mio formaggio preferito, cioè il gorgonzola. Suggerisco di scegliere metafore più adeguate distinguendo bene il concetto di “insieme”, a cui si rifà quello di filiera, da quello di “sistema” a cui per forza la sanità si deve rifare ma facendo bene attenzione a non perdere gli eventuali vantaggi ottenuti con la categoria speciale riducendo la sanità ad una catena agro alimentare, che di speciale non ha proprio niente. La filiera per il gorgonzola è un insieme di soggetti produttivi che diversamente dalla sanità non hanno bisogno ne dei PDTA nei dei PDTe meno che mai dei PTD e di tante altre cose.
La questione retributiva
Ma stringi stringi, P&P ci ripropongono il solito refrain corporativo di sempre: si tratta di agire la leva giuridica senza cambiare niente e senza dare mai niente in cambio, nonostante i gravi problemi sul tappeto, per rimediare, alla lunga, un po’ di salario in più.
La categoria speciale alla fine si spiega solo in funzione retributiva ma dentro uno schema contrattuale che restando invariato riduce la retribuzione ad elemosina esattamente come è stato in questi anni. Francamente fare la categoria speciale per avere in cambio un salario in genere compatibile con il pil non mi pare un grande affare. Anche perché il pil oggi se la passa male.
Il salario quindi per P&P è un mero fatto giuridico in una sanità in cui, per i tanti problemi che si devono risolvere, non può più essere solo un fatto giuridico ma deve diventare la contropartita dei valori diversi che il lavoro produce. Cioè la retribuzione per me deve essere la misura, come diceva Ricardo, del valore del lavoro sapendo che tale valore dipende da come concepisco agisco e organizzo le prassi e se raggiungo risultati verificabili.
Oggi io, che per primo su questo giornale ho parlato di una crescente de-intellettualizzazione del lavoro come premessa per la sua de-capitalizzazione, ritengo che la grande questione della retribuzione deve essere posta con forza perché non si può continuare con gli stipendi che abbiamo, ma per fare questo, nella situazione data, ritengo necessario ricapitalizzare e re-intellettualizzare il lavoro cioè ricostruirne il valore perduto in tutti i modi possibili. E questo in nessun modo si fa solo con operazioni giuridiche.
La ricapitalizzazione del lavoro
L’idea di “autore”, di shareholder, di retribuzione discreta, di capitale professionale e di professional agreement, (“quarta riforma”) altro non sono che modi di ridefinire un lavoratore attraverso la ridefinizione del suo lavoro al fine di ricavarne una retribuzione capace di compensare di più cioè di compensare competenze certo, ma anche abilità, capacità, responsabilità, adeguatezza, autonomia, imprenditorialità, sostenibilità, ecc.
Cioè è un modo di ricapitalizzare il lavoro in sanità. Se il lavoro non sarà ricapitalizzati al massimo con la categoria speciale ci posso fare la birra.
Oggi in sanità per guadagnare di più non basta essere riclassificati in qualche modo ma bisogna pragmaticamente valere di più. Considerando l’enorme invarianza del lavoro in questi anni, quindi i suoi notevoli problemi di adeguatezza nei confronti di una società complessa, i margini per valere di più ci sono, non resta che prendere la strada della riforma per essere semplicemente più adeguati.
La grande differenza politica tra me e P&P è che loro parlano solo di lavoratori senza mai parlare di lavoro, io al contrario credo che prima si deve parlare di lavoro e dopo di lavoratori.
Ribadisco quanto ho scritto proprio l’altro giorno (QS, 25 maggio 2020): esiste una struttura che connette che si chiama lavoro e che, proprio perché il lavoro tutto connette, è dal lavoro che dovremmo partire per cambiare la sanità.
Insisto nessuna riforma è possibile senza passare per il lavoro, chi ci propone la categoria speciale in realtà non vuole riformare un beneamato ciufolo.
Conclusione
Considerando la realtà della sanità, la proposta di P&P, non è solo apertamente contraria a ciò di cui la sanità ha bisogno per andare avanti rimanendo pubblica, ma è anche sconsiderata, nel senso di insistere, in un momento tanto difficile per tutti, con approcci sbagliati, con visioni datate, con un pensiero che definirlo debole significa fargli un complimento.
Qui non si tratta più di essere in disaccordo con una tesi ma di dissentire radicalmente da un modo vecchio e sbagliato di vedere alla sanità che se non ricusato rischia di metterla in pericolo, ma solo perché rischia di rivelarsi di fatto non tanto come una soluzione sbagliata ma come una “non soluzione” in un momento in cui si ha un gran bisogno di trovare delle soluzioni efficaci.
Sarebbe come in una tempesta tappare una falla sullo scafo di una nave piena di gente con i fogli di giornale.
Nel loro ultimo articolo su QS, Saverio Proia e Roberto Polillo, sostengono in modo piuttosto perentorio che per la sanità non c’è bisogno di “profonde riforme da riscrivere” dal momento che “basterebbe attuare realmente le leggi approvate”. Una tesi, da ogni punto di vista, decisamente improbabile, che non stupirebbe nessuno di noi se provenisse da persone inesperte ma che provenendo da persone che si reputano più che esperte, lascia molto perplessi
Se devo dare un consiglio a chi vuole capire le complessità del nostro dibattito in sanità, suggerisco di esplorare e di cimentarsi tanto con le buone idee che con quelle cattive. Vi assicuro che quelle cattive ci aiutano sia a renderci conto di quanto sia difficile il mondo in cui viviamo sia di quanto sia difficile semplicemente avere delle idee.
Una tesi improbabile e superficiale
Nel loro ultimo articolo su QS, Saverio Proia e Roberto Polillo, (d’ora in avanti P & P) sostengono in modo piuttosto perentorio che per la sanità non c’è bisogno di “profonde riforme da riscrivere” dal momento che “basterebbe attuare realmente le leggi approvate”.
Una tesi, da ogni punto di vista, decisamente improbabile, che non stupirebbe nessuno di noi se provenisse da persone inesperte ma che provenendo da persone che si reputano più che esperte, lascia molto perplessi.
Se fosse come dicono P&P resterebbero da spiegare molte cose:
– come mai anziché attuare la riforma del 78 se ne sono dovute fare altre due,
– come mai anche con tre riforme non si è riusciti a rimuovere in 40 anni le grandi contraddizioni del sistema che non cito perché note a tutti,
– come mai tante cose che avremmo dovuto riformare non sono mai state riformate,
– come mai tante cose che avrebbero dovuto essere nuove sono state “attuate”, direbbero P&P in modo vecchio, per esempio il distretto, il consultorio, l’integrazione e un mucchio di altre cose.
Riscrivere, contro-riformare, riformare
L’unico che ha provato davvero a “riscrivere” la riforma del ’78 è stato Giuliano Amato quando, da presidente del consiglio, ci ha proposto, il ritorno alle mutue e all’assistenza indiretta (ex articolo 9 del Dlgs 502/92, poi cassato dalla Garavaglia con il Dlgs 517/93).
A partire da Amato, chi ha “riscritto” la riforma, nonostante quello che dicono P&P, è stato il centro sinistra di governo, ma sempre con intenti contro-riformatori: nel ’92 ci ha rifilato le aziende, nel ’93 e nel ’99 i fondi integrativi e nel 2001 la riforma del titolo V e oggi il regionalismo differenziato.
L’unico che, in questi anni, per opporsi alla deriva contro riformatrice, si è battuto per riaprire un discorso riformatore sono stato io, con la “quarta riforma”, ma la quarta riforma, come è scritto su tutti i muri, non è, come dicono P&P, la “riscrittura” di una qualche riforma, ma semplicemente il compimento di un progetto di riforma, iniziato 40 anni fa, cioè è il tentavo di riformare quello che avremmo dovuto riformare e che a causa del famoso “riformista che non c’è” non abbiamo mai riformato.
Una bella cantonata
A parte la discutibilità di certe tesi, la cosa che colpisce dell’articolo di P&P, è una smaccata contraddizione tanto da apparire non solo il solito svarione che può capitare a tutti ma un’autentica cantonata e non solo logica:
– da una parte P&P, ignorando la storia recente della sanità, ci dicono che non serve “riscrivere” riforme,
– dall’altra, cito testualmente, scrivono che serve “una politica riformatrice di ampio respiro (…) nuova discontinua e radicale (…) una svolta epocale (…) che superi e rimodelli completamente …ecc”.
A questo punto non mi interessa esplodere la contraddizione per alimentare la polemica, ma servirmene:
– per capire come ragiona, colui che da anni io chiamo “il riformista che non c’è” e che Voltaire chiamava “Il filosofo ignorante”,
– per comprenderecome è fatta la testa di chi, convinto che tutti noi si scenda dalla montagna con la piena, si da arie da maitre a pensér senza essere ne “maitre” e purtroppo senza avere un “pensèe”.
Questa la mia ipotesi interpretativa:
– se è vero che le riforme non si “riscrivono” allora la riforma che P&P ci propongono è falsa, cioè non è una riforma, ma qualcosa di altro,
– abbiamo a che fare con il classico ballon d’essai.
Ancora il gioco dei 4 cantoni
Vorrei dimostrare che il pensiero di P&P, è null’altro che la riproposizione di quel vecchio approccio sindacale che, recentemente, discutendo con il responsabile nazionale della CGIL medici, ho definito dei 4 cantoni, (QS, 18 maggio 2020) del tutto simile come logica:
– a quella del comma 566, delle competenze avanzate, dell’incarico di funzione, della pura apologia dell’esistente,
– a quelle operazioni di riclassificazione previste anche nella piattaforma contrattuale, tutte di natura burocratica,
– a quei trucchi di carta che non sono origami ma solo espedienti normativi, che tentano di spremere le norme come limoni per ricavare un vantaggio in genere a scapito di qualcun altro, e che collocherei nella più classica tradizione dell’invarianza e dell’apologia.
Insomma l’ennesima finta rivoluzione di carta.
La proposta
La premessa da cui partono P&P è che la pandemia ha posto il problema di “riformare radicalmente lo stato giuridico ed economico dei professionisti e degli operatori produttori di salute.”
Come dire che siccome c’è il terremoto dobbiamo cambiare, a muratore invariante, lo statuto giuridico dei muratori, o siccome c’è l’incendio dobbiamo ripensare, a pompiere invariante, la definizione giuridica del pompiere.
Quindi a lavoro invariante, a servizi invarianti a organizzazione del lavoro variante, quindi a parità di sistema, di contraddizioni, di problemi, di diseguaglianze, di ingiustizie, di disfunzionalità, di errori politici, si tratta semplicemente di riconoscere che i lavoratori della sanità sono una “categoria speciale”.
E qui, a parte i problemi di inconsistenza politica della tesi, viene fuori una seconda grande contraddizione.
La categoria speciale è una vecchia idea che i medici, se non sbaglio tra gli anni ’80 e ’90, provarono a perseguire per sottrarsi ai limiti loro imposti dall’appartenere al comparto del pubblico impiego e quindi per sottrarsi alle restrizioni finanziarie imposte alla contrattazione di quel comparto. L’idea generale era quella che i medici, ma solo i medici, fossero considerati una “professione speciale” come i magistrati e quindi liberi da restrizioni finanziarie.
Ovviamente l’idea morì nello stesso istante in cui era nata. Ma evidentemente la lezione non è servita.
Speciale o unica
Rammento che la parola “speciale” nasce dal concetto di “specie”, ogni “specie” in quanto tale è “speciale”, ma se ogni specie è “speciale”, tutti sono in qualche modo “speciali” per cui viene contraddetto l’obiettivo di stabilire una alterità.
La contraddizione che P&P ci propongono nasce dall’aver sbagliato termine: semmai, si volesse sottolineare per la sanità un suo particolare valore categorico, non si tratta di definirla una “categoria speciale” ma, di definirla come una “categoria unica” cioè con una tale specificità da essere impareggiabile.
A rendere impareggiabile la sanità è una persona particolare che si trova solo nella sanità e che si chiama “malato” e che a sua volta costringe con la sua irriducibile complessità, a sua volta unica, tutti coloro che hanno a che fare con lui ad essere a loro volta unici in ogni senso. E’ l’unicità del lavoro in sanità a rendere unica la sanità. Niente altro.
“Unico” vuol dire che non ha eguali o simili nell’ambito particolare in cui si trova e che non può essere parificata in qualche comparto, in un qualche contratto onnicomprensivo, in una qualsiasi stiva.
P&P ci propongono la “categoria speciale” ma a parità di comparto, a parità di modelli contrattuali e ci spiegano che, per meritare la “specialità”, la categoria deve contribuire “all’attuazione” dell’art. 32 ed essere costituita da tante qualifiche.
E’ vero le qualifiche in sanità sono tante ma questa unicità non appartiene a tutte loro, ma solo a quelle che hanno un rapporto diretto con il malato o di cura o di assistenza. Ma di questo parleremo un’altra volta.
Ma a parte questo mi chiedo: ma quanti settori socio-economici attuano in qualche modo la costituzione e sono composti da tante qualifiche? Praticamente tutti. Nella realtà tutti sono categorie speciali, ma quali le categorie impareggiabili?
Soviet
Oltre la categoria speciale dicono P&P si tratta di fare un “accordo quadro di filiera”. Ma in tutta franchezza si fa fatica a capire che cosa sia.
L’accordo quadro, come tutti sanno, nel diritto dell’Unione europea, è una tipologia di contratto utilizzata negli appalti pubblici, che ha, come principale caratteristica, quella di offrire alla negoziazione una base di riferimento volutamente incompleta, rinviando il suo completamento a negoziazioni successive . Ma nella proposta di P&P esso non è un contratto di nessun tipo perché il sistema contrattuale vigente resta invariato, come pure restano invariati i “rapporti giuridici” e le aree contrattuali.
L’accordo quadro, secondo quello che ho capito, è null’altro che una forma di concertazione panottica con lo scopo di governare ex ante tutti i contratti in essere, cioè privati, convenzionati, pubblici dipendenti, al fine, (tenetevi forte) di “giungere ad un intesa unitaria e convergente per l’omogeneizzazione e l’adeguamento dell’organizzazione del lavoro”.
Non so perché ma quando ho letto la proposta, la prima cosa che mi è venuta in mente, a parte immaginare la faccia di alcuni sindacalisti che conosco, è la parola “soviet”.
La concertazione e la filiera
Del resto la tesi politica, non meno pittoresca delle altre, che per P&P giustificherebbe l’accordo quadro è che tutti i guai del sistema, ma proprio tutti, a parte il covid-19, nascerebbero da un difetto di concertazione per cui, per risolvere ogni cosa, servirebbe solo un bel soviet.
Quanto alla “filiera”, che dire, anch’io uso metafore, ma la sanità non è esattamente come una catena agro-alimentare e meno che mai è l’insieme dei servizi e/o aziende che concorrono alla catena che mi permette di mangiare il mio formaggio preferito, cioè il gorgonzola. Suggerisco di scegliere metafore più adeguate distinguendo bene il concetto di “insieme”, a cui si rifà quello di filiera, da quello di “sistema” a cui per forza la sanità si deve rifare ma facendo bene attenzione a non perdere gli eventuali vantaggi ottenuti con la categoria speciale riducendo la sanità ad una catena agro alimentare, che di speciale non ha proprio niente. La filiera per il gorgonzola è un insieme di soggetti produttivi che diversamente dalla sanità non hanno bisogno ne dei PDTA nei dei PDTe meno che mai dei PTD e di tante altre cose.
La questione retributiva
Ma stringi stringi, P&P ci ripropongono il solito refrain corporativo di sempre: si tratta di agire la leva giuridica senza cambiare niente e senza dare mai niente in cambio, nonostante i gravi problemi sul tappeto, per rimediare, alla lunga, un po’ di salario in più.
La categoria speciale alla fine si spiega solo in funzione retributiva ma dentro uno schema contrattuale che restando invariato riduce la retribuzione ad elemosina esattamente come è stato in questi anni. Francamente fare la categoria speciale per avere in cambio un salario in genere compatibile con il pil non mi pare un grande affare. Anche perché il pil oggi se la passa male.
Il salario quindi per P&P è un mero fatto giuridico in una sanità in cui, per i tanti problemi che si devono risolvere, non può più essere solo un fatto giuridico ma deve diventare la contropartita dei valori diversi che il lavoro produce. Cioè la retribuzione per me deve essere la misura, come diceva Ricardo, del valore del lavoro sapendo che tale valore dipende da come concepisco agisco e organizzo le prassi e se raggiungo risultati verificabili.
Oggi io, che per primo su questo giornale ho parlato di una crescente de-intellettualizzazione del lavoro come premessa per la sua de-capitalizzazione, ritengo che la grande questione della retribuzione deve essere posta con forza perché non si può continuare con gli stipendi che abbiamo, ma per fare questo, nella situazione data, ritengo necessario ricapitalizzare e re-intellettualizzare il lavoro cioè ricostruirne il valore perduto in tutti i modi possibili. E questo in nessun modo si fa solo con operazioni giuridiche.
La ricapitalizzazione del lavoro
L’idea di “autore”, di shareholder, di retribuzione discreta, di capitale professionale e di professional agreement, (“quarta riforma”) altro non sono che modi di ridefinire un lavoratore attraverso la ridefinizione del suo lavoro al fine di ricavarne una retribuzione capace di compensare di più cioè di compensare competenze certo, ma anche abilità, capacità, responsabilità, adeguatezza, autonomia, imprenditorialità, sostenibilità, ecc.
Cioè è un modo di ricapitalizzare il lavoro in sanità. Se il lavoro non sarà ricapitalizzati al massimo con la categoria speciale ci posso fare la birra.
Oggi in sanità per guadagnare di più non basta essere riclassificati in qualche modo ma bisogna pragmaticamente valere di più. Considerando l’enorme invarianza del lavoro in questi anni, quindi i suoi notevoli problemi di adeguatezza nei confronti di una società complessa, i margini per valere di più ci sono, non resta che prendere la strada della riforma per essere semplicemente più adeguati.
La grande differenza politica tra me e P&P è che loro parlano solo di lavoratori senza mai parlare di lavoro, io al contrario credo che prima si deve parlare di lavoro e dopo di lavoratori.
Ribadisco quanto ho scritto proprio l’altro giorno (QS, 25 maggio 2020): esiste una struttura che connette che si chiama lavoro e che, proprio perché il lavoro tutto connette, è dal lavoro che dovremmo partire per cambiare la sanità.
Insisto nessuna riforma è possibile senza passare per il lavoro, chi ci propone la categoria speciale in realtà non vuole riformare un beneamato ciufolo.
Conclusione
Considerando la realtà della sanità, la proposta di P&P, non è solo apertamente contraria a ciò di cui la sanità ha bisogno per andare avanti rimanendo pubblica, ma è anche sconsiderata, nel senso di insistere, in un momento tanto difficile per tutti, con approcci sbagliati, con visioni datate, con un pensiero che definirlo debole significa fargli un complimento.
Qui non si tratta più di essere in disaccordo con una tesi ma di dissentire radicalmente da un modo vecchio e sbagliato di vedere alla sanità che se non ricusato rischia di metterla in pericolo, ma solo perché rischia di rivelarsi di fatto non tanto come una soluzione sbagliata ma come una “non soluzione” in un momento in cui si ha un gran bisogno di trovare delle soluzioni efficaci.
Sarebbe come in una tempesta tappare una falla sullo scafo di una nave piena di gente con i fogli di giornale.