Recovery Plan e Case di Comunità. Carnevali (PD): “Un’opportunità per cooperare, confrontiamoci sulle diffidenze”
Ho fatto mia anche la “battaglia parlamentare” di investire con forza sulla formazione per i medici di medicina generale con maggior accesso ai corsi perché credo nel ruolo della medicina primaria e di iniziativa. Ma non comprendo la resistenza alle Case della Comunità, che non fanno venir meno il modello sostenuto dalla FIMMG di micro team ma che non può essere l’unico
Gentile Direttore,
mi inserisco nel dibattito che si sta tenendo sulle pagine del suo giornale dopo aver letto sia l’approfondimento sulla comparazione tra parere al PNNR della commissione Affari Sociali (avendo fatto la relatrice) e la versione finale approvata la scorsa settimana, sia l’intervista a Silvestro Scotti, segretario FIMMG e le osservazioni del prof. Ettore Jorio.
Il PNNR con i suoi 15,6 miliardi di euro – molti dei quali in spesa capitale – a cui si aggiungono le risorse del Fondo complementare e quelle di React-EU, garantisce un ammontare di oltre 20 miliardi di euro per la sanità, una cifra rilevante ma ad esaurimento entro un arco temporale di almeno 5 anni.
Bastano queste risorse per incidere sui punti nevralgici e fragili del SSN? Non credo, innanzitutto perché temporanee e perché su 120 miliardi di euro del fondo sanitario serve strutturalità, in capitale umano innanzitutto. Ma sono una poderosa cura per le molte voci che finanziano tra cui la sanità digitale (FSE, telemedicina con le sue varie declinazioni), l’ammodernamento tecnologico strumentale, l’investimento sugli ospedali più sicuri, e la Missione 5 relativa alle Infrastrutture sociali come parte integrante.
Condivido totalmente l’esigenza di ritornare ad investire sul SSN come dalla legge di bilancio 2020 in poi abbiamo visibilmente fatto. Bisogna fare di più perché, ad esempio, urgono investimenti importanti nel settore della prevenzione. Basta fare un giro nei dipartimenti di prevenzione o rileggere l’esperienza vissuta nei mesi terribili dell’arrivo della pandemia, per non derubricare in poche righe l’importanza di tale iniziativa, lo dico da lombarda innanzitutto.
Sono (e spero siamo tutti) profondamente convinta della necessità, prevista nel PNRR, di un forte investimento sull’assistenza domiciliare (4 miliardi di euro) con l’obiettivo di arrivare al 10% della popolazione over 65enne, che è doverosamente ambizioso. Così come fare per gli ospedali di comunità (2 miliardi di euro), anche a prevalente gestione infermieristica, una realtà che vorremmo diffusa soprattutto nelle aree più disagiate per i pazienti su cui ci attendiamo una stabilizzazione clinica, ed inserire le RSA e le loro prestazioni di unità d’offerta territoriali all’interno del sistema di programmazione della salute: anche questi sono obiettivi da perseguire con decisione.
Sull’assistenza territoriale nutro una posizione divergente, così come sul giudizio sulle Case della Comunità. Nessuno ha la presunzione di pensare che siano la panacea di tutti i mali, né che avranno la capacità di rendere operanti, in modo più capillare, le associazioni tra MMG. Le Aggregazioni Funzionali Territoriali (AFT), di cui purtroppo poco si parla, non sono un’esperienza consolidata, né lo sono le unità complesse di cure primarie (UCCP) che, come giustamente il Prof. Jorio riconobbe già nel 2018, sono ferme al palo a causa dell’inerzia delle Regioni.
La realtà è però questa. In molte regioni l’attività ambulatoriale specialistica è totalmente scomparsa dai distretti mentre di fatto è stata trasferita agli enti ospedalieri accreditati o alle aziende ospedaliere. I distretti sono diventati macroscopici e l’attività è prevalentemente amministrativa (vedi la scelta/ revoca/ cambio dei MMG, approvazione piani terapeutici, fornitura protesi/ausili e fornitura ADI attivata da MMG). In qualche realtà più avanzata possiamo trovare le Unità di Valutazione Multidisciplinari.
E l’integrazione socio-sanitaria che fine ha fatto? Se le Case della Salute non sono state un successo in alcune realtà, perché il loro superamento con l’implementazione delle Case della Comunità dovrebbero rappresentare l’allontanamento dai MMG? I micro team non possono trovare sede anche in questi luoghi come complementari in un progetto di prossimità più ampio? Non sono certo 1.288 Case della Comunità che ridisegnano la medicina territoriale ma possono essere un “modello” di integrazione da non osteggiare.
Non mi ha di certo appassionato il ridimensionamento finanziario da 4 mld a 2 mld previsto ora nel PNNR per questo intervento della Missione 6, motivato dal rischio di non spendibilità nei tempi richiesti dall’Unione Europea. Né la traduzione minimalista – rispetto alla versione iniziale della Case della Comunità – così fortemente calibrata più sul fronte sanitario che socio-sanitario e sociale.
Vorremmo, come abbiamo scritto nel parere della Commissione Affari Sociali alla Camera dei Deputati, che questi si trasformassero in luoghi di accesso al sistema salute, come luogo di integrazione tra la sanità territoriale e specialistica con le diverse risorse formali ed informali del territorio e le sue reti.
Vorremmo che questo intervento mettesse a sistema la progettazione degli Ambiti previsti dalla legge 328/00, dei servizi ed unità di offerta socio-sanitari e raggiungesse, attraverso azioni preventive, “curative”, sociali e riabilitative, le persone ad alto rischio di vulnerabilità e che innestasse progetti di presa in cura personalizzata e di inclusione reale, tangibile e misurabile, riattivando quella dimensione di relazione comunitaria indispensabile in un progetto di salute di un determinato territorio.
La complessità dei bisogni di salute richiede nuove alleanze e non può che essere basato su un lavoro multidisciplinare e interistituzionale. Il MMG è risorsa fondamentale di questo sistema integrato, ancor di più se è all’interno di un disegno ampio dove la progettualità è condivisa e il lavoro di equipe diventa davvero realtà. La casa della comunità può diventare il luogo fisico e simbolico di questo incontro che è contestualmente tecnico, sociale e culturale perché si sviluppa attorno ad un’idea di salute non solo riparativa ma orientata al benessere e all’inclusione sociale.
Questi aspetti ed esigenze, per me rilevanti per un nuovo approccio alla salute, non credo siano di interesse del privato accreditato. Se vogliamo e concordiamo che l’approccio “prestazionistico” venga superato e se come credo su questo vi sia comunanza di visione anche con i MMG, non bastano le sole forze dei MMG stessi per realizzare un nuovo modello di salute; se siamo consapevoli che la sola attività clinica, diagnostica e terapeutica non basti alla miglior cura ma abbiamo bisogno anche della “cura del, nel e con il territorio”, facciamo in modo che nascano le esperienze migliori.
È consolidato che più lontana è la possibilità di cura più crescono le disuguaglianze. Ho fatto mia anche la “battaglia parlamentare” di investire con forza sulla formazione per i medici di medicina generale con maggior accesso ai corsi perché credo nel ruolo della medicina primaria e di iniziativa. Ma non comprendo la resistenza alle Case della Comunità, che non fanno venir meno il modello sostenuto dalla FIMMG di micro team ma che non può essere l’unico. Proprio in quelle aree territoriali, dove i servizi sono scarsi o lontani, dove nonostante i migliori sforzi dei MMG l’assistenza territoriale non è sufficiente, è lì che dobbiamo investire su strumenti e modelli innovativi che coinvolgano le comunità e le persone alla collaborazione, cooperazione e corresponsabilità.
In diversi territori, da nord a sud, sono partite iniziative dal basso (spesso accompagnate dall’accademia e da istituti di ricerca che consolidano la scientificità del processo) che dimostrano come il protagonismo delle comunità nel determinare progetti di salute che la riguardano (e non solo di richiesta di prestazioni sanitarie), sono già prototipi di Case della Comunità. Le norme, come sempre, arrivano a disciplinare idee e azioni già in essere: questo non lo possiamo fermare piuttosto è un fenomeno che va sostenuto.